STORIA SERALE ‐ STORIA DI LORENZO
Lavoravo nelle autostrade, intervenivo quando c’era un incidente e allora non esisteva Pasqua,

non esisteva Natale, perché le emergenze accadono ogni giorno. Spesso mi trovavo davanti a
situazioni tragiche: ho visto morire tante persone, e tanti erano i ragazzi giovani. Quando sono
andato in pensione, nel 2009, non mi è dispiaciuto: alle spalle c’era tanto dolore, davanti a me la
gioia di due nipotini. Quel tempo che prima mancava, adesso finalmente lo potevo dedicare a
me, alla mia famiglia, agli altri.
Mi chiamo Lorenzo e faccio il volontario da 14 anni. Ho iniziato con il centro ascolto della Caritas,
dove ho imparato ad ascoltare ma anche ad aprire gli occhi intorno a me. Prima di allora, non ero
stato capace di vedere la povertà, che invece c’era e mi stava quasi a fianco. L’ho scoperta tra
persone con cui, da giovane, avevo condiviso i banchi di scuola. Persone assieme alle quali sono
cresciuto e che ora non sapevano come sfamare i loro figli. Ho capito, allora, che nella vita le
situazioni cambiano non per colpa di qualcuno o qualcosa, ma semplicemente perché è la vita a
cambiare. E chi soffre, chi è in difficoltà, non te lo fa vedere facilmente perché ha tanta dignità.
Spetta a te capire, aprire gli occhi, essere carne nella carne per percepire un bisogno non detto,
per poter dare un aiuto importante.
Poi ho lavorato con i profughi, tentando di favorire la loro integrazione e non è un compito facile.
Anche in quel caso ho capito tante cose. In particolare, ho capito che tutti quei racconti che ti
arrivano nelle orecchie, dalla strada o dai mezzi di informazione, non rispecchiano quasi mai la
realtà, che è ben più complessa. E questo mi ha insegnato a smettere di dare giudizi, come se
tutto fosse già noto, perché c’è sempre qualcosa in più da inquadrare.
Oggi il mio compito di volontario lo svolgo all’emporio solidale, una bella realtà nata dalla
distribuzione del cibo a chi non ne ha, e poi cresciuta grazie a un bando di Fondazione Cariplo,
diventando un piccolo supermercato per la spesa a punti. Ho 73 anni, l’età avanza e la fortuna ha
voluto che ora ci sia una terza nipotina: ha quattro anni e vorrei dedicarle quel tempo che non ho
dedicato ai miei figli, a mia moglie, perché non c’era Pasqua e non c’era Natale. Lo farò. Ma fin
quando la salute mi sosterrà, fin quando la famiglia mi appoggerà, fin quando sarò in grado di
dare qualcosa agli altri, continuerò a essere un volontario. Perché ho imparato tanto, ma ho
ancora tanto da imparare.

 
STORIA PER I MATINÉE ‐ STORIA DI DANIELE MATAROZZI
Mi chiamo Daniele, sono un docente. A volte penso che fare il professore, oggi, non sia poi così
fondamentale. Almeno non a scuola, almeno non come si insegnava una volta. Quel che io dico ai
ragazzi, le informazioni che trasmetto loro, le possono trovare un po’ ovunque. Vanno
sicuramente indirizzati, ma quel che conta davvero a scuola non è spiegare la lezione, non è
interrogarli. Un docente deve riuscire a fare qualcosa in più: spingere i ragazzi verso una crescita,
verso il miglioramento personale. Mettersi in discussione, partecipare a eventi, creare progetti
tutti insieme.
A Lodi e Codogno abbiamo deciso di fare così: progetti di rete su argomenti come la mafia e le
sue vittime innocenti, la violenza sulle donne, bullismo e cyberbullismo, educazione alle
differenze. Tematiche importanti, attenzionate e finanziate dalla Regione Lombardia. E con quei
finanziamenti siamo riusciti a portare i ragazzi in giro per l’Italia, nei campi di volontariato
organizzati da Libera, Legambiente, Arci, Associazione Kolbe.
Quel che è successo a Castel Volturno, con Libera, è significativo. Per molti di loro, era la prima
volta tutti insieme, dormendo in una tenda, facendo a turno i lavori che vanno fatti in un campo.
E che a casa, evidentemente, non erano abituati a svolgere. Ricordo un ragazzo che, il secondo
giorno, si rifiutò di lavare i piatti. E io gli dissi: prima o poi toccherà a te, come a tutti gli altri. Gli
capitò il terzo giorno e lavò i piatti. Poi, quando arrivò il momento di fare il doppio turno, fu lui il
primo a darsi disponibile. Lui, come gli altri ragazzi, si era trasformato. E lo aveva fatto con la
convivenza, ascoltando le storie che i giornalisti minacciati dalle mafie, che i familiari delle vittime
di mafia, raccontavano durante quell’esperienza al sud. Tutto in una sola settimana, durante la
quale i ragazzi si sono dati da fare costruendo anche una staccionata. Al ritorno a casa, i genitori
mi dissero: non sono più quelli di prima, sono diversi, sono diventati grandi.
Questa è scuola. Questo è il percorso che porta i ragazzi a imparare i valori fondamentali della
vita, i valori che contano quando un giorno entreranno nel mondo del lavoro. E io, che non ho poi
tanti anni più di loro, credo nelle reti che spingono i giovani a essere persone migliori, più di
quanto lo facciano una lezione, un esame. Ora, come rete, stiamo cercando di fare qualcosa in
più. Formiamo i ragazzi delle superiori perché diventino loro i coach e vadano a insegnare ai più
giovani, a quelli delle medie. Così il messaggio si fa più centrato. Fa bene a chi insegna, perché si
specializza in un argomento e diventa più responsabile. E fa bene a chi ascolta, perché un quasi‐
coetaneo viene considerato più di un adulto.
Qui a Lodi, a Codogno, noi facciamo così. 

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